Nelle periferie d’Italia il pomeriggio arriva sempre un po’ prima. Non per il sole, ma per l’ombra lunga dell’abbandono. Quartieri dove la scuola finisce a mezzogiorno e il resto della giornata si perde tra strade senza biblioteche, campetti senza palloni e centri giovanili mai aperti davvero. È in questi vuoti che le mafie entrano, senza bisogno di armi. Basta la promessa di un ruolo, di un riconoscimento, di una qualsiasi forma di appartenenza.
La Direzione Investigativa Antimafia, nella Relazione 2024, ha descritto questo meccanismo con un linguaggio asciutto: la povertà educativa e la mancanza di opportunità come fattori di radicamento delle mafie. Dietro quella formula tecnica si nasconde un fenomeno quotidiano, fatto di volti, scelte, paure e tentazioni.
Nei contesti sociali più fragili, l’assenza di prospettive non è solo un disagio: diventa una strategia per chi esercita potere illegale. Quando la scuola non riesce a trattenere i ragazzi, quando le famiglie sono schiacciate dalla precarietà, il territorio smette di essere un luogo e diventa una mappa di vulnerabilità. E le mafie la leggono meglio di chiunque altro.
Non servono grandi interventi: è sufficiente offrire piccoli passaggi. Un motorino, un lavoro “di giorno”, un incarico “di fiducia”. È così che la marginalità diventa reclutamento. Ogni giovane sottratto alla scuola e restituito alla strada è un tassello di un disegno più grande: consolidare il controllo sociale. Il sistema funziona perché si infiltra dove lo Stato fatica ad arrivare: nel doposcuola che manca, nel centro sportivo chiuso per mancanza di fondi, nella biblioteca mai inaugurata.
In diverse comunità del Sud e del Nord, la narrazione si ripete: un quartiere isolato, una scuola che fatica a trattenere studenti dopo l’obbligo, un gruppo criminale che si insinua come unica alternativa. Per alcuni ragazzi la differenza tra restare liberi o cadere nel circuito mafioso si gioca nel raggio di poche centinaia di metri. Tra una strada senza orizzonti e un presidio educativo che potrebbe cambiare il corso di una vita.
La DIA, nelle sue analisi, mostra come la povertà educativa non sia solo una conseguenza, ma un obiettivo funzionale: territori più fragili significano meno resistenza sociale, meno anticorpi, meno possibilità di mobilità individuale. Un giovane che non studia è più esposto. Un giovane che non lavora è più arruolabile. Un giovane che non vede alternative è già mezzo vinto.
Raccontare questo fenomeno significa guardare oltre il mito della mafia violenta e spettacolare. Le nuove mafie lavorano nel silenzio delle periferie, nella normalità dell’assenza, nella ripetizione dei giorni senza futuro. Non chiedono fedeltà immediata: la costruiscono erodendo lentamente le possibilità, fino a far sembrare inevitabile ciò che inevitabile non è.
Ed è qui che si gioca la vera battaglia. Non nei tribunali, non nelle cronache, ma nei luoghi in cui si formano – o si perdono – le opportunità. Una scuola aperta il pomeriggio, un laboratorio creativo, un allenatore che diventa un riferimento: sono questi i primi strumenti antimafia. Non hanno il clamore delle operazioni giudiziarie, ma incidono dove le mafie attecchiscono davvero: nella solitudine sociale.
Finché parti del Paese continueranno a crescere in una condizione di povertà educativa strutturale, la criminalità organizzata avrà sempre un canale privilegiato per radicarsi. La sfida, oggi, è colmare quel vuoto prima che qualcun altro lo riempia.
Fonti
Direzione Investigativa Antimafia, Relazione 2024 (sezioni su povertà educativa, radicamento mafioso e vulnerabilità sociale).
Conoscenza generale sul fenomeno.
