Dietro l’etichetta rassicurante di “formazione sul campo”, gli stage curriculari stanno diventando, in molte realtà italiane, uno strumento sistematico di lavoro gratuito mascherato da opportunità. Giovani universitari, spesso obbligati dai loro corsi di laurea ad affrontare un periodo di tirocinio, vengono inseriti in aziende e uffici non per apprendere, ma per sostituire personale retribuito. Il risultato è una forma di sfruttamento legalizzato, invisibile ai contratti collettivi e taciuta dai media.
Il meccanismo è noto e collaudato: lo studente entra in azienda, firma una convenzione con l’ateneo, viene affiancato da un “tutor” – spesso nominale – e si trova a svolgere attività routinarie, produttive, essenziali. Dall’inserimento dati alla gestione clienti, dalla redazione di report alla copertura di turni operativi. L’unica differenza rispetto a un dipendente vero è la paga: inesistente. E, nella maggior parte dei casi, anche la prospettiva di assunzione lo è.
A beneficiare di questo sistema sono soprattutto piccole e medie imprese che, grazie alla flessibilità normativa, riescono ad avere forza lavoro a costo zero. Gli stagisti vengono usati come “tappabuchi” in uffici cronici di personale o come manodopera temporanea in periodi di picco. Finito il tirocinio, il ragazzo viene sostituito da un altro studente. Un ciclo continuo, che sterilizza ogni funzione formativa e che rende i giovani meri strumenti di risparmio aziendale.
Le università, pur consapevoli della deriva, raramente intervengono. I tirocini rappresentano un passaggio obbligato nei piani di studio e le strutture accademiche, sprovviste di meccanismi di controllo efficaci, preferiscono garantire i numeri piuttosto che indagare sulla qualità. Le testimonianze degli studenti parlano chiaro: nessun progetto formativo, nessuna valutazione concreta delle competenze, solo lavoro operativo quotidiano.
Il paradosso è che, in nome dell’“alternanza studio-lavoro”, si sta alimentando una forma regressiva di precariato giovanile. Lo stage curriculare è diventato l’anticamera di nulla: mesi di fatica, spese a carico dello studente, nessun contratto, nessuna garanzia. Un’esposizione al mondo del lavoro che invece di formare, disillude.
Serve una riforma urgente. Serve ridefinire il concetto stesso di stage, limitarne l’uso improprio, monitorarne gli esiti, garantire almeno un rimborso minimo e, soprattutto, introdurre obblighi reali per le aziende ospitanti. Perché dietro ogni “opportunità formativa” ci sono vite, ambizioni e diritti che meritano rispetto, non sfruttamento.